Ghedi è in ogni luogo
Lo scorso sette ottobre si è appresa la notizia: a conclusione di indagini inziate mesi fa, la procura di Brescia decideva per il sequestro preventivo dello stabilimento Italcarni di Ghedi.
Dalle indagini (e dalle immagini riprese nel corso dei mesi grazie a telecamere nascoste) è emerso come, al fine di abbattere i costi di gestione, fosse pratica aziendale consolidata l’ignorare le prescrizioni in materia di commercializzazione della carne, e ignorare altresì ogni timida regola a parziale protezione degli animali; gli illeciti emersi sono gravissimi, sia per quanto riguarda la carne lavorata e distribuita ai punti vendita (carne di animali arrivati già morti, carne infetta – con livelli batteriologici fino a 50 volte superiori al consentito, presenza di salmonella), sia per quanto riguarda i maltrattamenti inflitti ai vitelli, ai manzi, alle mucche (trasporti in condizioni inaccettabili, animali bastonati, infilzati con le pale dei muletti, mucche a terra trascinate a forza verso la morte).
Risultano indagati l’amministratore unico della struttura, Federico Bosio, quattro suoi collaboratori, e due veterinari ASL (uno assegnato ora ad impianti diversi da Ghedi, e l’altro trasferito alla ASL di Lonato).
Si tratta dell’ultimo caso salito agli onori della cronaca, dopo lo scandalo sul traffico di farmaci veterinari illeciti utilizzati per aumentare la produzione di latte emerso a seguito dell’inchiesta Via Lattea, dopo quello degli orrori dell’industria della mozzarella di bufala, dopo le immagini arrivate al grande pubblico del trattamento riservato alle mucche a terra, e dopo le condanne inflitte ai dirigenti di Green Hill e il rinvio a giudizio di due veterinari ASL implicati nel caso.
La meraviglia, e l’indignazione, sono unanimi. Chi parla di “maltrattamenti crudeli e gratuiti […] in spregio alle rigorose normative sul benessere animale”, chi di “illegalità molto diffusa” ed “effetti sulla salute umana”, di “necessità di commissariare la ASL di Brescia” rea di non aver effettuato i dovuti controlli. Manca solo l’invito ad attivare un numero “SOS maltrattamenti”.
Quasi che quanto emerso oltre gli alti cancelli del macello di Ghedi sia un’anomalia, un caso unico.
Quasi che possano esistere allevamenti e mattatoi dove gli animali sono felici.
Quasi che la quotidianità stessa, per tutti coloro che non sono altro che un numero, non sia intrisa di violenza.
Quasi che la sofferenza non sia insitamente contenuta in ogni istante. Nella mutilazione, nella separazione dai propri figli o dalla propria madre, nella segregazione forzata, nei trasporti che durano ore, nel fatto stesso di essere inesorabilmente condotti a morire.
Eppure basta poco per rendersene conto.
Basta ascoltare le parole di chi nei macelli ha lavorato, come Ivan.
Basta andarsi a guardare le immagini delle tante investigazioni condotte negli anni, negli Stati Uniti come in Europa, da Animal Aid ad Animal Equality, fino a quella recentissima di L214 che ha portato alla chiusura del mattatoio di Alès, in Francia.
Ed è bastato a noi assistere a quel che abbiamo visto così recentemente all’interno dell’allevamento di Suzzara.
Ovunque, in qualsiasi situazione in cui individui sono ridotti ad un numero, in cui si realizza la dicotomia tra sfruttatore e sfruttato, tra padrone e schiavo, il meccanismo è lo stesso. La violenza è istituzionalizzata ed inevitabile.
Quanto dimostrato più di trenta anni fa con un discusso esperimento alla Stanford University, e ancora prima e ancora adesso dalle testimonianze su lager, gulag, fabbriche, campi di detenzione, si ripete e si ripeterà fin quando non verrà rimossa la causa.
Fin quando il nostro sistema sociale si reggerà su forme di sfruttamento e violenza, sarà inevitabile costruire barriere fisiche, spaziali e linguistiche che nascondano ai più quanto accade, e che rendano invece chi prende direttamente parte al “lavoro sporco” (i lavoratori dei macelli e degli allevamenti, così come le guardie dei campi di prigionia o i capò delle fabbriche di Shenzhen o Yiwu) capaci di azioni altrimenti indigeribili attraverso un processo di estraneazione e reificazione della vittima.
Che da individuo con occhi, vita, respiro, intelligenza, sentimenti, diviene nemico, cosa, mero numero.
Per questo, anche se quel macello ora è vuoto ed inattivo (ed il responsabile ha ammesso gli illeciti – ma stando ai giornali non citando assolutamente i trattamenti riservati agli animali), Ghedi continua ad esistere ovunque.